Di Enrica Senini avvocato in Brescia.

Per poter esaminare in modo completo la legittimità delle norme adottate dal Governo e dal Parlamento italiano in materia di gestione dell’emergenza coronavirus, e delle misure di contenimento adottate per arginare la crisi sanitaria, è necessario partire dagli obblighi internazionali cui l’Italia è vincolata in virtù del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato dall’Italia nel 1953, e della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) ratificata nel 1955.

Soffermandoci, in particolare, su quest’ultima, essa prevede, fra gli altri, il diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5), il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9), la libertà di espressione (art. 10), e la libertà di riunione e di associazione (art. 11).  La giurisprudenza della Corte di Giustizia aveva ritenuto che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU avessero rango di norma comunitaria e, successivamente, dopo l’adozione del Trattato di Lisbona, il Trattato sull’Unione Europea dispone , all’art. 6, che “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” e che “i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…) fanno parte del diritto dell’Unione, in quanto principi generali”.

Ebbene, ne consegue che tali diritti sono a tutti gli effetti sanciti in norme di rango comunitario e fonte vincolante di diritto primario.

L’art. 15 della CEDU prevede una deroga ai diritti fondamentali in essa sanciti “in caso di urgenza”. In particolare la norma prevede che “in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte Contraente può prendere misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale”. Secondo le interpretazioni più accreditate, la norma consente agli Stati contraenti di poter derogare alle libertà fondamentali qualora vi sia una guerra o “un altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”, nella stretta misura in cui la situazione lo esiga e, pertanto, nel rispetto del principio di proporzionalità. L’esistenza di una situazione di emergenza è lasciata alla valutazione discrezionale dei singoli Stati, ma è chiaro che essa deve concretarsi in un evento concretamente verificatosi, che coinvolge l’intera nazione e che non comporti l’adozione di misure restrittive a tempo indeterminato. L’Italia ha accettato l’art. 15 della CEDU senza riserve; pertanto, qualora dovesse essere necessario invocare la deroga al rispetto dei diritti non inderogabili sanciti dalla CEDU, essa dovrebbe notificare l’esercizio del diritto di deroga al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, come richiesto dal comma 3 dell’art. 15.

E’ interessante notare come, invece, la Francia abbia dichiarato, in sede di ratifica della CEDU, di non essere disposta ad accettare la limitazione di cui all’art. 15 e quindi, in pratica, si è ritenuta libera di prendere le misure idonee in caso di emergenza, senza alcuna limitazione od obbligo di comunicazione agli organi internazionali designati dall’art. 15 della CEDU. Secondo l’art. 16 della Costituzione francese, però, il Presidente della Repubblica ha la possibilità di adottare poteri eccezionali quando le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza della nazione, l’integrità del territorio o l’esecuzione degli impegni internazionali sono minacciati in maniera grave ed immediata e il regolare funzionamento dei poteri pubblici costituzionali è interrotto.

Non solo: l’art. 1 della legge n. 385/55 francese prevede espressamente la dichiarazione di “stato di urgenza”, cosa che nell’ordinamento giuridico italiano non è contemplata.

La prima valutazione da compiere, pertanto, è se l’Italia, nell’avere dichiarato uno “stato di urgenza” e nell’avere limitato conseguentemente i diritti e le libertà fondamentali delle persone, abbia in primis rispettato gli obblighi comunitari e internazionali previsti dalla CEDU. Non risulta, almeno per quanto conoscibile dalle fonti pubblicamente consultabili, che l’Italia abbia notificato la deroga agli obblighi previsti dalla CEDU ai sensi dell’art. 15 di quest’ultima. Alcuni autori hanno sostenuto che tale “notifica” si possa ritenere come eseguita a seguito della pubblicazione della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31/01/2020, in cui veniva dichiarato lo “stato di emergenza” della durata di sei mesi, ma ovviamente, in assenza di specifici precedenti in materia, la tesi è senz’altro discutibile.

Il primo punto di riflessione è, quindi, che vi sono legittimi dubbi che le misure restrittive assunte dal Governo italiano siano conformi alla CEDU e, pertanto, qualora esse effettivamente non si ritenessero validamente comunicate al Segretario Generale del Consiglio d’Europa per il loro controllo e monitoraggio, esse potrebbero costituire una violazione dello Stato agli obblighi assunti con la ratifica della CEDU.

Vediamo però se le disposizioni e le misure adottate dal Governo e dal Parlamento italiani per affrontare l’emergenza sanitaria da coronavirus siano conformi al sistema giuridico italiano di rango primario e secondario.

Il primo provvedimento assunto è la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 (pubblicata sulla GU del 01/02/2020) che, vista la dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus dell’OMS del 30 gennaio 2020 e, vista la nota del Ministero della Salute del 31 gennaio 2020 con la quale si è rappresentata la necessitò di dichiarare lo stato di emergenza nazionale ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs. n. 1/2018, ha deliberato per il periodo di sei mesi “lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

A differenza della Francia la cui normativa, come abbiamo visto sopra, disciplina espressamente lo “stato di urgenza”, in Italia la norma di riferimento, invocata dal Consiglio dei Ministri nella delibera del 31 gennai 2020, è il Codice della Protezione Civile (D.Lgs n. 1/2018). Esso prevede che il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, formulata anche su richiesta del Presidente della Regione o Provincia autonoma interessata e comunque acquisitane l’intesa, deliberi lo “stato d’emergenza di rilievo nazionale”, fissandone la durata e determinandone l’estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi e autorizza l’emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all’articolo 25. Ai sensi dell’art. 7 di tale Codice, gli eventi che legittimano l’assunzione di tale dichiarazione sono – per quanto di rilievo in questa sede – le “emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24”.

E’ evidente che la norma è inserita all’interno di un Codice nato per fronteggiare precipuamente le emergenze calamitose di origine naturale, quali terremoti o alluvioni, o derivanti dall’attività dell’uomo, e non ha mai trovato applicazione in eventi di natura emergenziale sanitaria quali una pandemia.

Fatto sta che, quand’anche ritenessimo applicabile tale normativa all’emergenza coronavirus, in assenza di altre disposizioni che consentano l’adozione di misure straordinarie (al di fuori dello stato di guerra previsto dall’art. 78 Cost.), essa prevede che il Consiglio dei Ministri autorizzi “l’emanazione di ordinanze di protezione civile di cui all’art. 25”, e cioè ordinanze che “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e dell’Unione Europea”, siano finalizzate, fra l’altro, ad organizzare gli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione interessata all’evento, al ripristino dei servizi pubblici e delle infrastrutture, all’attivazione di misure economiche di immediato sostegno al tessuto economico e sociale nei confronti della popolazione e delle attività economiche e produttive direttamente interessate all’evento, e alla realizzazione di interventi strutturali per ridurre il rischio nelle aree colpite.

Il Codice della Protezione Civile, quindi, non autorizza il Governo ad avocare a sé poteri straordinari anche di natura legislativa, ma autorizza soltanto il Consiglio dei Ministri ad autorizzare ordinanze di protezione civile volte a far fronte ad un’emergenza che abbiamo più volte visto in occasione di terremoti, alluvioni, o frane.

Invece il Governo, dopo quasi un mese dalla delibera del 30 gennaio con la quale è stato dichiarato lo stato di emergenza per l’epidemia da coronavirus, “visti gli art. 77 e 87 Cost.” e “ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, adottando misure di contrasto e contenimento alla diffusione del predetto virus”, ha emanato il Decreto Legge 23 febbraio 2020 n. 6  (il “Primo Decreto Legge”) che demanda alle “autorità competenti” di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica.

Tra le misure ivi elencate (art. 1 comma 2) vi sono:

a) divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata  da parte  di  tutti  gli  individui  comunque  presenti  nel  comune   o nell’area;

b) divieto di accesso al comune o all’area interessata;

c) sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi  natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo  pubblico  o  privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche  se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico;

d) sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e  delle  scuole di ogni ordine e  grado,  nonché della  frequenza  delle  attività scolastiche e di formazione superiore, compresa quella universitaria, salvo le attività formative svolte a distanza;

e) sospensione dei servizi di apertura  al  pubblico  dei  musei  e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo  101 del codice dei beni culturali e del  paesaggio,  di  cui  al  decreto legislativo 22 gennaio 2004,  n.  42,  nonché  dell’efficacia  delle disposizioni regolamentari sull’accesso  libero  o  gratuito  a  tali

istituti e luoghi;

f)  sospensione   dei   viaggi   d’istruzione   organizzati   dalle istituzioni scolastiche del sistema nazionale d’istruzione,  sia  sul territorio  nazionale  sia  all’estero,  trovando   applicazione   la disposizione di cui all’articolo 41, comma 4, del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79;

g) sospensione delle  procedure  concorsuali  per  l’assunzione  di personale;

h) applicazione della  misura  della  quarantena  con  sorveglianza attiva agli individui che  hanno  avuto  contatti  stretti  con  casi confermati di malattia infettiva diffusiva;

i) previsione dell’obbligo da parte degli individui che hanno fatto ingresso  in  Italia  da  zone   a   rischio   epidemiologico,   come identificate   dall’Organizzazione   mondiale   della   sanità   di comunicare  tale   circostanza   al   Dipartimento   di   prevenzione dell’azienda sanitaria competente  per  territorio,  che  provvede  a

comunicarlo all’autorità sanitaria competente per  l’adozione  della misura di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva;

j) chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto dei beni di prima necessita’;

k) chiusura o limitazione  dell’attività degli  uffici  pubblici, degli esercenti attività di pubblica  utilità  e  servizi  pubblici essenziali di cui agli articoli 1 e 2 della legge 12 giugno 1990,  n. 146, specificamente individuati;

l) previsione che l’accesso ai servizi pubblici essenziali  e  agli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima  necessita’  sia condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale  o all’adozione   di   particolari   misure   di   cautela   individuate dall’autorità competente;

m) limitazione all’accesso o sospensione dei servizi del  trasporto di merci e di persone  terrestre,  aereo,  ferroviario,  marittimo  e nelle acque interne, su rete nazionale, nonché di trasporto pubblico locale, anche non di linea, salvo  specifiche  deroghe  previste  dai provvedimenti di cui all’articolo 3;

n)  sospensione  delle  attività lavorative  per  le  imprese,  a esclusione di quelle che erogano servizi  essenziali  e  di  pubblica utilità  e  di  quelle  che  possono  essere  svolte  in   modalità domiciliare;

o) sospensione o  limitazione  dello  svolgimento  delle  attività lavorative nel comune o nell’area interessata nonché delle attività lavorative degli abitanti di detti comuni o aree svolte al  di  fuori del comune o dall’area indicata, salvo specifiche deroghe,  anche  in ordine ai presupposti, ai limiti e alle modalità di svolgimento  del lavoro agile, previste dai provvedimenti di cui all’articolo 3.

Il Governo ha, quindi, emanato tale decreto legge invocando l’art. 77 Cost che, al comma 2, gli consente di adottare, in caso di straordinaria necessità e urgenza e sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, quali sono appunto i decreti legge, che perdono la loro efficacia fin dall’inizio qualora non siano convertiti in legge dal Parlamento entro  sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Tale potere, peraltro, forse neppure discendeva dall’art. 77 Cost., poiché se la situazione di straordinaria necessità ed urgenza ivi prevista era rinvenibile nella dichiarazione di stato di emergenza di cui alla Delibera del Consiglio dei Ministri del 30 gennaio 2020, essa autorizzava semmai l’emanazione di ordinanze di protezione civile, e non certo l’avocazione a sé, da parte del Governo, del potere di demandare alle “autorità” competenti di disporre provvedimenti incidenti su numerose libertà e garanzie costituzionali.

Lo stesso 23 febbraio 2020 è stato emanato il primo DPCM attuativo del DL 23 febbraio 2020 n. 6, che ha adottato in sede esecutiva le misure di contenimento previste dal DL con efficacia 15 giorni, demandando al Prefetto territorialmente competente la loro esecuzione, avvalendosi delle forse di polizia, previa comunicazione al Ministero dell’Interno.

Sono stati successivamente emanati altri tre dpcm attuativi del DL n. 6/2020, in data 25 febbraio 2020, 1 marzo 2020, 4 marzo 2020, sempre inserendo misure restrittive e di contenimento, fino ad arrivare al 5 marzo 2020, giorno in cui il DL n. 6/2020 è stato convertito in legge n. 13/2020.

Dopo, cioè, 11 giorni in cui i diritti di circolazione, di riunione e associazione, e di esercizio dell’attività economica erano stati compressi da provvedimenti governativi di dubbia validità, il Parlamento ha “ratificato” l’operato del Governo rendendo tali misure previste da una legge ordinaria dello Stato.

Vari commentatori, fra cui l’autorevole prof. Sabino Cassese, hanno sostenuto l’incostituzionalità delle misure di cui al DL n. 6/2020, vuoi perché esse non derivavano da una dichiarazione di stato di guerra ex art. 78 Cost., vuoi perché erano previste in modo troppo generico senza stabilire le modalità di esercizio dei poteri, né con quali atti essi avrebbero dovuto essere assunti. Aggiungerei anche che tali misure non erano nemmeno giustificate dalla situazione di “emergenza” dichiarata ai sensi dell’art. 25 del Codice della Protezione Civile che, come evidenziato sopra, prevede espressamente che ogni provvedimento assunto in occasione dell’emergenza deve essere adottato nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico (e, quindi, in primis, della Costituzione), e dell’Unione europea (quindi, della CEDU). Quindi, non può violare le libertà costituzionali, né quelle contenute nella CEDU qualora non sia stata attivata la deroga di cui all’art. 15 CEDU. Infine, i dpcm che si sono succeduti sino al 25 marzo 2020, pur introducendo limitazioni estese sull’intero territorio nazionale, fondavano la loro (il)legittimità sul DL n. 6/20, il quale tuttavia era “nato come provvedimento volto a introdurre misure su base locale (circoscritti cioè alle c.d. zone rosse)”.

Oltre al vizio di forma, le restrizioni imposte dal Governo violano numerosi diritti costituzionali anche nella sostanza. Infatti, sono state previste limitazioni alla libertà personale, prevedendo il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione se non per casi eccezionali (che incidono sull’art 13 Cost.), limitazioni alla circolazione fra Comuni (che incidono sull’art. 16 Cost.), divieti di riunione o assembramento in luoghi pubblici, aperti al pubblico o privati (che incidono sull’art. 17 Cost.), la sospensione delle cerimonie religiose e l’accesso ai luoghi di culto (che incide sull’art. 19 Cost.), la sospensione delle attività giudiziarie non urgenti (che incide sull’art. 24 Cost.), a sospensione delle attività didattiche e delle scuole (che incide sull’art. 33 Cost), la chiusura di cinema, teatri, bar, musei, ristoranti e attività commerciali (tranne quelle considerate essenziali) (che incide sull’art. 41 Cost.), limitazione alla proprietà nel vietare l’accesso alle seconde case (che incide sull’art. 42 Cost.). Molte di queste libertà costituzionali, fra cui la limitazione alla proprietà privata, o la chiusura delle scuole e dei luoghi di culto, o la chiusura delle attività commerciali, possono essere limitate per motivi di sanità, di sicurezza o per assicurarne la funzione sociale, ma certamente il diritto alle riunioni in luoghi privati, o il diritto all’accesso alla giustizia, o , in primis, la libertà personale di cui all’art. 13 Cost. non possono essere limitati neppure per questioni di sanità pubblica, se non ovviamente mediante provvedimento dell’autorità giudiziaria. In pratica, potrebbe anche essere costituzionalmente legittima l’imposizione di non poter andare in una città diversa da quella in cui una persona risiede.(art. 16 Cost., che può essere limitato “per motivi di sanità o sicurezza”), ma l’impedimento ad uscire di casa, se non per recarsi al lavoro (se esso rientra in una delle attività individuate come “essenziali”) o per ragioni di salute, equivale sostanzialmente a tenere una persona agli arresti domiciliari in assenza di un provvedimento limitativo della libertà disposto dall’autorità giudiziaria.

Successivamente alla conversione in legge del Primo Decreto Legge (avvenuta, come detto, il 5 marzo 2020 con L. n. 13), sono stati emanati, sempre in sua attuazione, altri tre dpcm, rispettivamente in data 8, 9 e 11 marzo 2020, contenenti ulteriori misure restrittive e di contenimento assunte in considerazione della diffusione epidemiologica che si stava sviluppando.

Nel mentre, per non tralasciare la “confusione” normativa nella quale sono stati messi i cittadini, il Governo ha emanato ulteriori Decreti Legge: il DL 2 marzo 2020 n. 9 (Misure a sostegno delle famiglie, delle imprese e dei lavoratori), il DL 8 marzo 2020 n. 11 (Misure straordinarie e urgenti per contenere gli effetti dell’emergenza sull’attività giudiziaria), il DL 9 marzo 2020 n. 14 (Potenziamento del servizio sanitario), il DL 17 marzo 2020 n. 18 (Il decreto “Cura Italia”) e, infine (ma, purtroppo, non da ultimo) il DL 25 marzo 2020 n. 19.

Tale ultimo DL n. 19/2020 è di particolare rilevanza per quel che concerne la tutela delle libertà costituzionali, in quanto – mutuando le parole del prof. Sabino Cassese – esso ha “aggiustato il tiro”, prevedendo all’art. 1 una serie di limitazioni stavolta circostanziate anche in relazione ai limiti temporali e in ordine ai contenuti, e abrogando il Primo Decreto Legge (il DL n. 6/2020) come convertito in L. n. 13/2020. La cosa che sorprende, però, è che tale DL n. 19/2020, pur abrogando il Primo decreto Legge, ha fatto salvi gli effetti prodottisi con i dpcm attuativi del DL n. 6/2020 abrogato, con ciò mantenendo in vita degli atti amministrativi delegati in assenza della normativa delegante.

In conclusione, abbiamo avuto per oltre un mese restrizioni alle libertà garantite dalla costituzione e dalla CEDU non basate su provvedimenti legittimi nella sostanza e nella forma, ed ora che il provvedimento che dispone tali restrizioni è ancora un decreto legge (il DL n. 19/2020, ad oggi non ancora convertito in legge) si pone nuovamente il problema se esso sia giustificato e legittimo nella forma, discendendo esso sempre dalla medesima dichiarazione di stato di emergenza del 31 gennaio  2020.

Rispetto al Primo Decreto Legge, il DL n. 19/20 impone limitazioni per  periodi  predeterminati, ciascuno di durata non  superiore  a  trenta  giorni,  reiterabili  e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020 (termine  dello stato di emergenza dichiarato con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020), e con possibilità di  modularne  l’applicazione in aumento ovvero in diminuzione secondo  l’andamento  epidemiologico del predetto virus, secondo  principi  di  adeguatezza  e  proporzionalità  al rischio effettivamente presente su specifiche  parti  del  territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso.

Tali limitazioni sono elencate all’art. 1 in modo più specifico e dettagliato rispetto al primo decreto, ma esse nuovamente incidono, in parte, su libertà personali garantite dalla costituzione e dalla CEDU che non possono trovare limitazione per ragioni di natura sanitaria quali, in primis, la “limitazione della circolazione delle persone, anche prevedendo limitazioni  alla  possibilità   di   allontanarsi   dalla   propria residenza, domicilio o dimora  se  non  per  spostamenti  individuali limitati nel tempo e nello spazio o motivati da esigenze  lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni” (art. 1 lett. a) DL n. 19/20). La cosa singolare è che nel preambolo del decreto legge viene espressamente menzionato, quasi a “giustificazione” delle misure adottate, l’art. 16 Cost. che prevede la possibilità di limitare la circolazione per ragioni sanitarie. Ma va sottolineato – come già fatto più sopra – che l’art. 16 Cost. riguarda la libertà di circolare e soggiornare liberamente nel territorio, e non la libertà di uscire. O meno di casa, che è invece garantita, senza eccezione di sorta se non con una limitazione disposta dall’autorità giudiziaria, dall’art. 13 Cost.

Resta, poi, un cavillo comprensibile solamente ai giuristi capire se è legittimo che un decreto legge abbia abrogato un decreto legge precedente già convertito in legge, ma abbia fatto salvi i suoi dpcm attuativi, o quali sanzioni penali o amministrative siano applicabili in caso di violazione delle misure di contenimento, e in quale ammontare; l’art. 4 DL n. 19/20, infatti, contempla sanzioni amministrative che, al comma 3 sono ridotte di un terzo, mentre al comma 8 sono ridotte della metà. Ma questo è solo un esempio dell’assoluta non chiarezza e imprecisione delle norme sanzionatorie previste dal DL n. 19/20.